Il problema dei rifiuti di plastica in Tunisia
Sostenibilità

Il problema dei rifiuti di plastica in Tunisia

Il ruolo della moda e, in particolare, del fast fashion, non è secondario nel valutare cause e conseguenze della disastrosa situazione ambientale in Tunisia.

Le coste della Tunisia sono invase da rifiuti di plastica. Il peso della produzione senza più criterio di oggetti e indumenti non riguarda solo le coste del Ghana.


Il peso dell’Occidente 

Anzi, sono numerosi i siti geografici in cui il deposito di rifiuti è pericolosamente fuori controllo. Ci sono Kenya, Nigeria, Tanzania e non manca all’appello neppure la Tunisia, che vede nelle Isole Kerkenna l’emblema di questo disastro umano e ambientale. Sono numerosissime le periferie di grandi centri africani o le spiagge, un tempo ambita meta turistica, oggi trasformati in discariche. Anzi, più che discariche sono diventati veri e propri quartieri – o, per usare un termine caro alla moda e al designdistrict in cui si accumulano tonnellate di spazzatura. In gran parte proveniente dai paesi occidentali.

Lo schiaffo morale del fast fashion 

La responsabilità del fast fashion non è secondaria. Anzi: non solo vengono accumulate tonnellate di rifiuti impossibili da smaltire, ma si infierisce su territori già prostrati. Dalle condizioni economiche e climatiche, ad esempio. E lo si fa contribuendo all’inquinamento dei corsi d’acqua e alla scomparsa di specie marine, un tempo necessarie per la sussistenza alimentare. Stando ai numeri diffusi dalle Nazioni Unite, la quantità di acqua necessaria per produrre un paio di jeans sarebbe sufficiente al fabbisogno di una persona per oltre sette anni. E questo rappresenta oltre che un danno materiale, anche uno schiaffo morale alle condizioni di vita di moltissime popolazioni.


I numerosi riverberi dell’insostenibilità

Il ruolo della Tunisia, poi, è duplice. Risente sia del problema ormai incontrollato dei rifiuti (tessili e non), che dello sfruttamento delle risorse. Sono numerose le multinazionali di prét-à-porter e i brand di fast fashion che, negli ultimi decenni, hanno delocalizzato in Tunisia. Con tutto ciò che questa scelta comporta in termini di sostenibilità economica, umana e – ultima ma non ultima – ambientale. Il profitto è generato dalla delocalizzazione e dallo sfruttamento di risorse umane, in larga parte minorenni. A lavoratori e lavoratrici viene corrisposto uno stipendio bassissimo che si accompagna, tra le altre cose, a zero garanzie previdenziali e orari massacranti.


La circolarità come orizzonte

Come già visto nel caso del Ghana, a fronte di uno scenario molto preoccupante a livello ambientale, si delinea creatività e la volontà di alleviare il problema con i mezzi a propria disposizione. Del resto, il mercato second hand in Africa è ben radicato già da tempo, proprio per fronteggiare quella che letteralmente appare come un’invasione di rifiuti tessili. Il fenomeno degli obroni wawu ghanesi viene declinato in altre modalità in tutto il continente e qui, in Tunisia, si chiamano barbéchas. Naturalmente, si tratta di reimmettere in un nuovo circuito di acquisto capi prodotti per l’Occidente e progettati per essere un esubero. E poi inviati in Africa per essere smaltiti, o semplicemente ammassati nelle sempre più frequenti discariche.


Dalla plastica alla moda

Nel 2022 è stato avviato un programma di recupero per provare a salvare le coste tunisine. Il Ciheam (Centro internazionale di alti studi agronomici mediterranei) di Montpellier ha coordinato un progetto che ha coinvolto direttamente anche le popolazioni locali. I rifiuti di plastica raccolti hanno subito un processo di trasformazione grazie alla presenza nel progetto di Seaqual Initiative e alla realizzazione di Seaqual Yarn®. Il tessuto che viene prodotto dagli scarti di plastica, di cui il 10% è proveniente da rifiuti marini e il restante 90% da PET utilizzato. Il prodotto ottenuto ha caratteristiche identiche al poliestere vergine e trova molteplici impieghi nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. E sono già diverse le realtà locali che si occupano di moda, brand come Outa, che si sono avvicinate a questo filato. Per dare un’impronta di maggiore sostenibilità alle proprie creazioni, ma anche per rinsaldare un rapporto con il territorio per converso. Perché radicamento a un luogo può significare anche seguirne le evoluzioni e utilizzare la creatività per lanciare messaggi di denuncia.

 


Immagine di copertina: Antoine Giret , Unsplash

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