Il Ghana è l’emblema dei danni collaterali del fast fashion
Sostenibilità

Il Ghana è l’emblema dei danni collaterali del fast fashion

Immagine: Okwaeze Otusi, Unsplash

All’Occidente e alla sua produzione indiscriminata arriva un chiaro j’accuse da una nuova generazione di stilisti africani, che prova ad arginare il problema dei rifiuti tessili con la creatività e la sensibilità ambientale.


Che il fast fashion sia responsabile di uno scompenso ambientale ed economico, è cosa nota. Meno noti e sotto gli occhi di tutti, forse, sono i riverberi che da questo sbilanciamento prendono le mosse per trasformarsi in fenomeni poco indagati.

La moda insostenibile

Tra questi, purtroppo, c’è lo scenario di un Occidente che grava pesantemente sulle regioni più povere del mondo. La sovrapproduzione indiscriminata di capi di abbigliamento e accessori genera – come facilmente intuibile – anche ingenti quantità di rifiuti tessili. Invenduto, merce fallata, scarti industriali e vestiti buttati via troppo presto per la loro scarsa qualità o semplicemente perché diventati fuori moda in fretta. Scarti che, il più delle volte, vengono conferiti a Paesi già duramente prostrati da povertà e dissesto ambientale. E il caso del Ghana è diventato, negli ultimi anni, particolarmente emblematico.

Obroni wa wu sulle spiagge africane

Già da diverso tempo si sono accesi i riflettori sulla situazione dello smaltimento dei capi di abbigliamento nel Paese africano. Capi che vengono definiti obroni wa wu, letteralmente vestiti dei bianchi morti, nella lingua locale. I collegamenti tra l’iperconsumismo del fast fashion e la morte sarebbero immediati e suggestivi.

Ma è bene non limitarsi ad analogie che, seppur centrate, rischierebbero di rimanere astratte. Gli abiti europei e nordamericani dismessi affollano i villaggi e le spiagge ghanesi; in alcuni tratti, poi, sono sepolti sotto la sabbia fino a due metri di profondità. Le conseguenze disastrose sono solo vagamente ipotizzabili, soprattutto in termini di dispersione delle microplastiche e dei danni dovuti alle colorazioni chimiche nocive. Allarmi già lanciati dalla Commissione Europea in un report che metteva a fuoco l’incidenza e il livello di pericolosità dei rifiuti tessili occidentali. La situazione appare disperata: basta guardare le immagini che arrivano dal mercato tessile di Kantamanto o dalla spiaggia di Chorkor ad Accra per capirlo.

L’upcycling come frontiera di stile

Eppure, c’è una nuova generazione di stilisti e designer che ha saputo rilanciare il tema attraverso un meccanismo sorprendente. Una protesta gentile, che passa attraverso l’upcycling dei vestiti occidentali, rinvenuti in vastissime aree del Paese africano. Sono giovani che conservano le radici culturali e la coscienza delle proprie origini, utilizzando gli scarti tessili per veicolare messaggi molto forti. Tematiche come lo sfruttamento delle risorse, l’ecologia, lo strapotere occidentale o l’imprescindibile ruolo della creatività sono alla base di questi lavori.

Scontro e fusione di due mondi

Attività che si impegnano a reimmettere in una catena second hand quelli che, altrimenti, sarebbero solo rifiuti. Il tutto passando attraverso la personalizzazione di un concept e la presentazione di uno stile originale.

C’è chi, come gli stilisti Slum Studio o Lucky Blezz, ha raggiunto una certa notorietà, reinterpretando i tessili per la casa o collaborando con musicisti di fama nazionale. Designer che si lasciano ispirare dai mercati cittadini, su cui giacciono tonnellate di vestiti usati. E gli obroni wa wu vengono presi e reinterpretati in una chiave istrionica, provocatoria, a tratti distopica. Una filosofia che non necessita di teorizzazioni e si basa sull’ispirazione. Su un sentire profondo in cui confluiscono le proprie tradizioni e, insieme, le influenze di un mondo lontano. Ed è da modi di vestire così distanti che si genera un cortocircuito visivo tra la storia del costume europea e quella africana.

Davide contro Golia?

Certo, potrebbe sembrare una lotta impari, quella tra i creativi africani e i colossi del fast fashion. Tuttavia, si tratta di una scelta che, prima che di stile, è soprattutto identitaria. Il sentimento di rivalsa nei confronti del capitalismo sfrenato dei Paesi più ricchi non è un elemento affatto secondario. Così, l’estro diventa il veicolo per manifestare il dissenso verso le politiche di accumulo dei rifiuti tessili in queste zone.

Una nuova generazione che appare coesa, sia sul fronte dell’upcycling creativo, sia su quello della fruizione. Perché sono giovani i designer, ma altrettanto giovani i “testimonial” ideali che indossano i capi. Vestiti e accessori che da una parte contribuiscono, seppur in minima parte, ad alleviare il gravoso problema degli scarti tessili e del loro accumulo indiscriminato. Ma dall’altra rappresentano un grido chiaro e nitido, una critica lucida al sistema che ingloba fast fashion e sfruttamento indiscriminato delle risorse. Un j’accusesenza appello a chi produce e vende, senza interrogarsi su dove e come verrà smaltito l’abbigliamento prodotto a ritmi frenetici.

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