Economia circolare: a che punto siamo?
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Economia circolare: a che punto siamo?

Le proiezioni dei possibili benefici economici sono decisamente promettenti, addirittura impressionanti se legati all’industria 4.0. E in Italia non mancano le sorprese; anche positive.

La definizione di “economia circolare” ha fatto la sua prima comparsa a metà degli anni ’70 all’interno di un rapporto presentato alla Commissione europea. Il concetto che sta alla base e che segna un distacco netto dalle dinamiche dell’economia tradizionale è la non linearità dei processi che assumono quindi una dimensione “rigenerativa” (seppur con perdita di materiale a ogni ciclo) in assoluta identità con i cicli di vita biologici presenti in natura in grado di recuperare materia viva anche a fine vita (“restorative by intention” secondo la definizione dell’Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite). Da allora il concetto si è diffuso molto a livello mondiale entrando, di fatto, nelle politiche di sviluppo di molti Paesi, non solo definendo obiettivi “ex-post” (uno su tutti il riciclo del 70% dei rifiuti municipali e dell'80% di quelli  d'imballaggio entro il 2030 all’interno della comunità europea), ma dando anche vita ad azioni preventive come la progettazione dei prodotti di consumo in modo da renderli più idonei al disassemblaggio e al recupero di materiale, come nel recente D.M n. 140/2016 sull’ecoprogettazione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (cosiddette Aee), ma anche nel documento Ocse/Oecd sulla sostenibilità che indica nel “disaccoppiamento” dei materiali la chiave di volta.

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Ma è forse la dimensione economica del fenomeno a colpire di più, vista l’assoluta rilevanza dei dati: un rapporto della Ellen MacArthur Foundation parla di un risparmio di 1.000 miliardi di dollari all’anno entro il 2025, con la contestuale creazione di 100.000 nuovi posti di lavoro nei prossimi 5 anni a scala mondiale, mentre per la sola Europa sono stati ipotizzati vantaggi pari a 1,8 mila miliardi di euro al 2030 con un contestuale innalzamento del Pil all’11% (contro il 4% attuale). Quello che però lascia realmente impressionati sono le potenzialità del binomio economia circolare-industria 4.0, quella che il rapporto definisce una “trillion-dollar opportunity”.

Di fronte a dati di tale portata il mondo delle imprese sta reagendo con estremo interesse: in una recentissima indagine di Global Compact e Accenture su un campione di 1000 amministratori delegati delle principali imprese nel mondo è emersa non solo una risposta pressoché uniforme (90%) sull’intenzione di considerare l’economia circolare come elemento strategico di lungo periodo, ma addirittura la consapevolezza di sentirsi i principali protagonisti del processo di cambiamento (49% degli intervistati); percezione speculare - ed è questo forse il dato più promettente perché restituisce l’idea di un processo condiviso - a quella della popolazione europea  che si vede come il principale driver delle politiche produttiva attraverso la scelta dei modelli di consumo (rapporto di Eurobarometer).

E in Italia? Contrariamente a ogni luogo comune, la situazione sulla circular economy è tutt’altro che arretrata sia per motivazioni anche di carattere storico (le concerie toscane producevano tessuti partendo dagli stracci già nel 1200) sia sulla base di evidenze più recenti: in uno studio della fondazione Symbola condotto con Unioncamere è emerso come le imprese italiane che investono di più in asset “circolari” siano più competitive e più propense alla capacità innovativa. Non solo; le imprese italiane spiccano anche in un contesto europeo per il rapporto tra input di materia/unità di prodotto. Non va dimenticato che tra le varie disposizioni introdotte dal collegato ambientale c’è anche l’introduzione del “Made Green in Italy”, primo  caso  di  recepimento, da parte di uno  stato  membro  dell’Unione europea, della raccomandazione 2013/179/CE sull’environmental footprint.

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