Parità di genere: si parta dai diritti e dai servizi
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Parità di genere: si parta dai diritti e dai servizi

Denatalità e occupazione femminile in Italia e in Europa. Come sono collegate e cosa hanno a che fare con la parità di genere?


Denatalità, occupazione femminile, diritti delle donne e delle famiglie.

Accostare in un trittico questi concetti significa non fermarsi alla superficie di un tema che di superficiale non ha nulla, addentrandosi al contrario a chiedersi perché, in Italia e in tutta Europa, le culle vuote possono diventare sintomo rilevante di disparità di genere e mancanza di tutele. Che rapporto c’è tra numero di nascite e inoccupazione femminile? E cosa hanno a che fare con la gender equality? Una recente analisi di Randstad aiuta a far luce sulla questione.


Denatalità, i dati in Italia e in Europa

Secondo i più recenti dati pubblicati dall'Istat, in Italia nel 2023 i nati residenti sono 379mila, con un tasso di natalità del 6,4 per mille. La diminuzione delle nascite rispetto al 2022 è di 14mila unità, corrispondente a un calo del 3,6%.
 

Come confermano i numeri diffusi da Eurostat, è l’intera Europa a essere in sofferenza: nel 2022, l’UE è infatti scesa sotto i 4 milioni di nascite. In tale quadro, l’Italia si colloca in coda insieme a Malta e Spagna, con un tasso di fertilità dell’1,24, contro l’1,79 nascite per donna della Francia, che detiene il primato di natalità.


Nascite e occupazione femminile: come sono collegate?

In Italia, la bassa natalità e la scarsa occupazione femminile sono ormai strutturali: pochi bambini nascono e poche donne lavorano.
 

A partire da tale evidenza, una recente analisi di Randstad mette in relazione il tasso di occupazione femminile con il tasso di fecondità, allo scopo di rilevarne i collegamenti. I risultati ottenuti confermano che, in Paesi del Sud Europa come Italia, Grecia e Spagna, la fecondità media è bassa e l’occupazione femminile è inferiore al 65%.

In Paesi come Irlanda, Francia, Danimarca e Islanda, invece, il numero medio di figli per donna è superiore a 1,7, con un tasso di occupazione superiore al 70%.
Ne deriva, dunque, un dato che potrebbe sorprendere: la maternità non è di per sé un ostacolo all’occupazione. La spiegazione della scarsa occupazione femminile va dunque ricercata in altri fattori.

Una questione di (dis)parità

“La percentuale di coppie in cui, in presenza di un figlio, lavora solo l’uomo è molto elevata. Si parla dell’83,3% delle coppie (contro il 63,2% di coppie senza figli)” si legge nella ricerca, in relazione alla situazione italiana.
 

Nell’attuale inadeguatezza delle misure di tutela da parte delle istituzioni e della maggior parte delle aziende, “tra le soluzioni che le coppie adottano per conciliare lavoro e vita privata sono spesso le donne a farsi carico del lavoro di cura di figli e familiari, rinunciando in parte o totalmente all’impegno lavorativo fuori dalla famiglia”.

I motivi sono diversi: un retaggio culturale che fa ricadere le responsabilità di cura sulle donne, la mancanza di servizi a sostegno dei genitori e il divario di retribuzione tra uomini e donne. “Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Inps sui dipendenti del settore privato, nel 2022, la retribuzione media annua in Italia è stata di 22.839 euro. Tuttavia, il gender pay gap è pari a quasi 8mila euro: 26.227 euro è lo stipendio medio annuo degli uomini, 18.305 quello delle donne”. 
 

>>Leggi anche: Parità di genere leva di sostenibilità


Aumentare l’occupazione femminile tutelando i padri lavoratori: il ruolo delle aziende

Un incremento della durata del congedo di paternità potrebbe avere effetti sull’occupazione femminile? Lo studio “The impact of paternity leave on mothers’ employment in Europe” (2021) - citato da Randstad- mostra che l’introduzione dei congedi di paternità in Europa accresce del 17% il tasso di occupazione delle madri.
  

In Italia, dal 13 agosto 2022 il padre lavoratore dipendente ha l'obbligo di astenersi dal lavoro per 10 giorni, dai 2 mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i 5 mesi successivi, durante i quali ha diritto a un’indennità del 100% della sua retribuzione. Si tratta di una misura introdotta con l’obiettivo di ottenere una più equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne. Tuttavia, i numeri italiani sono molto esigui, se confrontati con la durata dei congedi riservati ai padri negli altri Paesi europei.La Slovacchia e la Norvegia, ai vertici della classifica che vede il Belpaese nelle ultime posizioni, propongono congedi facoltativi (rispettivamente 28 settimane al 75% della retribuzione la Slovacchia e 15 al 100% la Norvegia). La Spagna offre 16 settimane di congedo obbligatorio, mentre in Francia si ha un congedo obbligatorio di 5 settimane al 91,4% e uno facoltativo di 26 settimane al 13,5%.Oltre al congedo obbligatorio, in Italia i padri possono richiedere un congedo facoltativo, la cui retribuzione, tuttavia, è pari al 30% dello stipendio. Forse proprio per questo motivo, la quota di coloro che usufruiscono della possibilità è piuttosto bassa (3.203 persone nel 2022). In questo panorama generale, il ruolo che possono svolgere le aziende private è sempre più importante, decidendo liberamente di innalzare il numero di giornate concesse, così come la percentuale di retribuzione.

Ancora una volta, per poter parlare realmente i gender equality, occorre partire dai diritti, e dai servizi necessari a tutelarli.


Immagine di copertina: Sandy Millar, Unsplash

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