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Il tema della sostenibilità ambientale si ripresenta al centro del fashion business in occasione del Copenaghen Fashion Summit 2019. Il mondo della moda non fa concreti passi avanti e torna al centro delle polemiche.
Il mondo della moda torna al centro delle discussioni globali riguardanti i passi avanti rispetto alla questione climatica. Il tema della sostenibilità del fashion business, sia per quanto riguarda l’impatto ambientale, sia quello sociale, è stato riportato alla luce anche durante il Copenaghen Fashion Summit, tenutosi gli scorsi 15 e 16 maggio.
Durante l’evento sono stati presi in esame i dati relativi ai progressi portati avanti dal mondo della moda riguardo a questi temi sensibili ma le conclusioni alle quali si è giunti non sono le più esaltanti.
Certo, i problemi che sono stati portati alla luce per molti persone non sono una novità, ma in un panorama tutto sommato non troppo esaltante è da considerarsi positiva la scelta di alcuni personaggi di spicco dell’ambiente della moda di ricorrere al palcoscenico dell’evento danese per riportare agli occhi di addetti ai lavori e fruitori le evidenti contraddizioni di un intero settore e proporre soluzioni per il futuro più prossimo.
Sono diversi i nodi che sono stati affrontati durante la manifestazione e su tutti è stato evidenziato ancora una volta che sono soltanto i leader dell’industria della moda, le grandi firme, ad avere nelle proprie mani il potere decisionale su quale direzione debba prendere l’intero settore. Un potere che questi grandi esercitano a spese di piccoli e medi produttori e consumatori.
L’industria dell’abbigliamento sta vivendo una lotta intestina: i marchi più popolari, quelli che vengono scelti dalle masse, nonostante l’impegno, dichiarano la propria difficoltà nell’attuare politiche aziendali più sostenibili e responsabili e in loro difesa gettano accuse contro le grandi firme, nomi altisonanti che a suon di ricarichi stellari possono facilmente permettersi di adattare il loro business a quelle che sono le richieste dei consumatori: maggior attenzione verso l’ambiente e più responsabilità sociale. In loro difesa i medi e piccoli brand sostengono di non avere le capacità economiche per poter adeguare i loro iter produttivi a degli standard etico-ambientali più elevati.
L’analisi su scala mondiale ha rilevato che le vendite del 93% dei marchi di abbigliamento occupano le fasce medio basse dell’intero mercato mentre solo il 7% degli acquisti attinge dai prodotti dei brand di riferimento negli ambienti luxury. Risulta evidente quindi una forte contraddizione: le classi meno abbienti sono anche quelle che, loro malgrado, inquinano di più. La sostenibilità, per molti, è un lusso.
Quello che emerge dai dati è che solo un intervento massiccio di governi e sindacati può concretizzare un cambiamento dei meccanismi del mercato con normative adeguate. I governi dovrebbero intervenire per far sì che anche il mondo della moda possa contribuire alla lotta contro il surriscaldamento globale.
È logico sperare e lottare perché i cambiamenti possano prendere vita nelle stanze del potere di tutto il mondo, per mettere in condizioni tutti di poter essere più sostenibili, anche i ceti meno abbienti. Tutto questo mantenendo chiara la visione sulle inevitabili ripercussioni sociali di certe scelte.
Non bisogna dimenticare infatti che la questione sociale non è meno importante di quella ambientale: a oggi l’unico modo per abbattere i costi e proporre prodotti più sostenibili al quale ricorrono i marchi più popolari pare essere spostare le sedi del business dove la mano d’opera può essere sfruttata a costi ridicoli. Evidentemente questa non è la soluzione: il rispetto per l’ambiente deve essere promosso tanto quanto una maggiore equità del mercato.
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