Slow Fiber: l’industria tessile ha bisogno di rallentare
Sostenibilità

Slow Fiber: l’industria tessile ha bisogno di rallentare

Immagine: Ufficio stampa Slow Fiber


Intervista a Dario Casalini, fondatore di Slow Fiber, il network di aziende della filiera tessile unite per rispondere al fast fashion con il valore

Slow Fiber è il progetto “spin-off” di Slow Food nato per mettere in rete le aziende dell’industria tessile e proporre una nuova concezione dell’abbigliamento. Perché una filiera articolata dovrebbe basarsi sull’assunzione di responsabilità di produttori e consumatori, così come sulla limpidezza della comunicazione. Quella di Slow Fiber è un’idea che fa da contraltare alle cattive abitudini radicate negli ultimi anni: fast fashion e greenwashing. E che, in luogo di sfruttamento incondizionato delle risorse e prodotti standard, propone qualità e valore. A patto che anche gli acquirenti siano disposti a diventare parte attiva di un circolo virtuoso. L’elogio della lentezza nella moda raccontato da Dario Casalini, fondatore di Slow Fiber.

Sano – bello – pulito – durevole – giusto – buono: queste le parole chiave alla base di Slow Fiber.

L’idea che sta alla base di Slow Fiber è che il bello si accompagni anche a criteri di “bontà” sociale e ambientale. La nostra azienda ideale prevede un forte legame con il territorio, promuove le competenze locali, ha rapporti con i propri partner che non sono meri fornitori. Ogni parola chiave è per noi molto articolata: alcuni criteri sono obbligatori, altri invece rappresentano un orizzonte di costante miglioramento. Per coprire una gamma estremamente varia di standard. Dal trattamento delle fibre da un punto di vista chimico ai controlli su ogni step della filiera produttiva. E ancora: dalla riduzione dell’impatto ambientale attraverso l’autoproduzione o l’acquisto di energia verde al rispetto per la manodopera. Slow Fiber crede nei singoli lavoratori e lavoratrici come risorse fondamentali che possono aggiungere valore al prodotto finale. Attraverso maestranze e competenze tessili, ad esempio, che rischiano di essere perdute quando si delocalizza una filiera sul modello dei colossi del fast fashion. Inoltre, si stima che la stragrande maggioranza dei lavoratori non arrivi a un salario di sussistenza: il nostro obiettivo è quello di garantire diritti e salubrità nell’ambiente di lavoro. A questo si aggiunge poi la durevolezza, che significa realizzare capi lontani dalla mentalità usa&getta, pensati anche per essere riparati.


A proposito di moda usa&getta: qual è la formula Slow Fiber per arginare la deriva del fast fashion?

Il problema del fast fashion è che crea una grandissima quantità di prodotti sfruttando in maniera sconsiderata sia l’ambiente che le comunità in cui la produzione si svolge. Una massa di oggetti che in molti casi resta invenduta. Slow Fiber si propone di applicare i sei criteri-cardine a tutta la filiera che è molto complessa e articolata. Si va dalla fibra alla creazione del filo, dal finissaggio del tessuto al confezionamento e alla logistica. Senza tralasciare che ogni lavaggio ha un impatto, così come lo smaltimento del prodotto a fine vita. Per noi ripensare la filiera significa analizzare in modo intellettualmente onesto ogni passaggio, i suoi pro e i suoi contro. Il grande problema rappresentato dal greenwashing non è dire una cosa non vera, ma dirne una parziale. Il nostro approccio vuole essere complessivo, per far sì che l’intero modello industriale (e non solo una parte dei prodotti) risponda ai criteri Slow Fiber.


L’industria tessile, in termini di inquinamento, grava quasi al pari dell’industria alimentare. Il tessile può essere protagonista di una rivoluzione culturale analoga a quella già in atto nel settore del cibo?

È quello che ci auguriamo. Il cibo ha radicalmente cambiato la sua valenza anche grazie ad associazioni come Slow Food. Dovremmo però soffermarci sul fatto che mangiamo tre volte al giorno, mentre siamo a contatto con manufatti tessili 24 ore su 24. Eppure, curiosità e interesse che ruotano attorno al cibo non si riscontrano nei confronti del tessile. Sul cibo esistono decine di programmi televisivi, in un ristorante il cliente ha sempre la curiosità di farsi raccontare un piatto e la relativa filiera… Per il tessile sembra invece che l’unico criterio sia ancora solo quello estetico. L’idea di Slow Fiber è quella di dare maggiore consapevolezza nel consumatore, spinto a chiedersi quale storia ci sia dietro a un capo. E se questa storia c’è, allora quel capo è stato realizzato secondo criteri di sostenibilità; altrimenti significa che c’è la volontà di nascondere e omettere.


Nel progetto rientra anche l’idea di “educare” i consumatori verso scelte più consapevoli e prodotti più duraturi?

Responsabilizzare il singolo equivale anche a trasmettere l’idea che a un valore corrisponde un costo. Se l’acquirente ultimo decide di accollarsi il costo sociale e ambientale del prodotto scelto, allora sta ripagando l’impatto causato. Rifiutandosi di pagare adeguatamente un prodotto, si stanno semplicemente scaricando questi danni lontano. Ma inevitabilmente ritornano sotto forma del dramma dell’immigrazione e sotto forma di eventi climatici estremi. Il fast fashion ha distrutto le filiere locali a livello tessile e ha imposto produzioni basate su quantità, velocità e standardizzazione del prodotto. E questo ha avuto il risultato paradossale di indurre in povertà intere comunità. Per questo promuoviamo le filiere locali, ad oggi in crisi anche per la quantità di usato o invenduto che l’Occidente riversa in quei territori.


In che rapporto sono informazione e sensibilizzazione?

L’obiettivo di educare il consumatore parte dalla trasmissione dei valori non trainati esclusivamente da estetica e funzionalità. Perciò confidiamo nella curiosità del consumatore di accedere a numerose fonti di informazione imparziali e capaci di fornire dati non manipolati dalla comunicazione aziendale. Ben vengano le modifiche normative, ma il singolo non dovrebbe aspettarle: è necessario trovare una propria strada. Per Slow Fiber acquistare un capo significa acquistare i valori che esso ha rappresentato lungo tutta la filiera produttiva. E il prezzo diventa, quindi, il primo indicatore di sostenibilità.Alla base di Slow Fiber c’è anche la volontà di immaginare il futuro guardando a un passato di sostenibilità – umana, lavorativa e ambientale – a lungo ignorato?

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