Allarme rosso in Veneto: trovate tracce di sostanze tossiche nelle analisi di 507 persone
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Allarme rosso in Veneto: trovate tracce di sostanze tossiche nelle analisi di 507 persone


Le falde acquifere contengono sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e la popolazione residente in alcune zone della Regione mostrerebbe livelli di PFAS accumulati dall’organismo negli anni.

In Veneto, da un’indagine sulla popolazione è emerso che, non solo le acque contengono allarmanti livelli di inquinamento da PFAS: anche le persone mostrano livelli di contaminazione. Le sostanze perfluoroalchiliche o PFAS, sono composti di natura organica. Tra gli PFAS, le molecole più diffuse sono i PFOA (acido perfluoroottanoico) e PFOS (acido perfluoroottansolfonico).

Ma a che cosa servono? A partire dagli anni ‘50, queste molecole sono state utilizzate per produrre prodotti per la pulizia (in particolare, emulsionanti e tensioattivi), insetticidi, rivestimenti protettivi, vernici, schiume antincendio, prodotti per stampanti, pellicole fotografiche, superfici murarie, prodotti di microelettronica, rivestimenti per contenitori per il cibo. Sono presenti nel Teflon, nel Goretex. Servono anche a rendere idrorepellenti i materiali. Se pensiamo che queste sostanze servono a produrre oggetti di uso quotidiano, è inevitabile una certa preoccupazione. Queste sostanze possono provocare diversi disturbi fisici, quali: colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, effetti sui reni, patologie della tiroide. Nei soggetti “super esposti” (i cittadini “esposti” hanno livelli superiori 14 ng/g di siero, quelli “super esposti” arrivano a 70 ng/g), possono causare tumore del testicolo e del rene.

Secondo Domenico Mantoan, Direttore Generale Area Sanità e Sociale della Regione Veneto, “per le sostanze petrofluoralchiliche, nelle acque sotterranee, superficiali e potabili, nel 2013, non c’era nessuna norma, non c’erano concentrazioni limite da rispettare”. Per studiare la diffusione degli PFAS nelle acque potabili, nel 2013, il CNR (Centro Nazionale Ricerche) aveva attivato una campagna di misurazione dei livelli delle sostanze chimiche negli sversamenti dei principali bacini idrici italiani. Le indagini avevano mostrato un livello preoccupante di inquinamento diffuso di PFAS in alcuni Comuni nelle Provincie di Vicenza, Padova e Verona.

Il primo step per porre rimedio alla situazione è stato un intervento sull’inquinamento dell’acqua potabile attraverso filtri a carboni attivi. Nel 2014 sono stati mappati i pozzi privati ad uso potabile, con la collaborazione dei Sindaci e delle ULSS (come quella di Verona). Il territorio analizzato dall’Arpav ha comportato oltre 1800 prelievi di acqua e si è estesa su un territorio di oltre 300 km. Però, era chiaro che bisognava comprendere e riuscire a misurare il livello degli effetti di queste molecole sull’organismo umano e verificare la presenza di tali sostanze attraverso un monitoraggio sierologico volto a determinare la contaminazione nel tempo della popolazione esposta. Il siero, componente del sangue umano, è stato prelevato a 507 persone, residenti nei Comuni di Montecchio Maggiore, Lonigo, Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego, Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva, Loreggia, Resana, Treviso.

Il 20 aprile 2016, i risultati delle analisi commissionate dall’Istituto Superiore di Sanità e dalla Regione Veneto, sono stati presentati con un comunicato stampa, I risultati preliminari, forniti come elaborazioni di dati statistici aggregati, confermano la presenza di PFAS nel siero delle persone. Le zone più toccate dall’inquinamento da esposizione al PFAS sono Arzignano (ULSS 5) e parte dell’area di Vicenza (ULSS 6). È chiaro che l’accumulo di queste sostanze tossiche nell’organismo è caratterizzato da uno smaltimento lento. Secondo Loredana Musumeci, direttore del Dipartimento Ambiente dell’Istituto Superiore di Sanità, è bene “mettere dei limiti certi alle acque di scarico”. Sempre secondo Musumeci, “la situazione evidenzia un’esposizione” -“c’è una parte della popolazione più esposta rispetto ad un’altra". La zona “Ulss 5 rispetto all’Ulss 6 è maggiormente esposta” e“i PFAS sono molto persistenti, molto bioaccumulabili e tossici”.

 

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La causa non è nota. Si vocifera che l’inquinamento sia dovuto ai quarantennali sversamenti dell’azienda chimica Miteni di Trissino. L’azienda, smentisce ogni accusa con una nota nel sito internet. In effetti, l’area è vasta. Si tratta di un territorio pari a 300km. L’inquinamento delle falde potrebbe non essere attribuibile ad un’azienda sola. Bisognerebbe proseguire con le indagini, approfondire, andare a fondo. Ma perché la situazione è nota solo adesso? Questo è un grande punto di domanda a cui qualcuno, inevitabilmente, dovrà rispondere. Prima o poi.

Abbiamo raggiunto Veronica Rigoni, consigliere comunale a Creazzo, uno dei comuni maggiormente colpiti e le abbiamo rivolto alcune domande.

Sappiamo che Creazzo è una delle aree a maggiore impatto, insieme a Montecchio Maggiore, Lonigo, Brendola, Altavilla, Sovizzo, Sarego. Come state affrontando la situazione nel vostro Comune? 

È stata emessa un’ordinanza in questi giorni relativa ai pozzi privati, ordinando a tutti i cittadini di non consumare quell’acqua né per usi domestici, né per abbeverare gli animali o innaffiare l’orto. Nei pozzi saranno effettuati prelievi e analisi. Ma è dal 2013 che i Comuni sono a conoscenza dell'accertato inquinamento da sostanze chimiche Pfas. Sono quindi tre anni di nulla di fatto. È un po’ tardi.

Lei è Consigliere comunale di una zona critica. Qual è il livello di allerta nella popolazione?
Da agosto 2013 non c’è stato alcun incontro pubblico o informativa, ma solo della corrispondenza tra le Istituzioni. I cittadini sanno che oggi l’acqua distribuita dovrebbe essere a norma, uso il condizionale perché ora c’è un problema di fiducia rispetto chi avrebbe dovuto garantire anche al tempo l’acqua non contaminata. Le Istituzioni stanno rassicurando i cittadini, ma per fare questo realmente bisogna che le analisi delle nostre acque vengano pubblicate quotidianamente. Nel sito di Acque Vicentine, per esempio, l’ultimo aggiornamento sullo stato dell’acqua del mio comune è di due mesi fa.

Già nel 2013, il CNR aveva evidenziato il problema degli sversamenti. Perché, secondo lei, si è atteso così tanto tempo prima di informare i cittadini? La cittadinanza è mai stata informata prima di oggi? Qual è la sensibilità verso il problema?
La cittadinanza, in parte, era a conoscenza del problema, ma non della gravità perché l’argomento è stato silenziato. È infatti solo in questi giorni che il direttore generale della sanità veneta Mantoan ha illustrato le possibili ricadute sulla salute di chi per anni ha bevuto quest’acqua. E stiamo parlando di un numero che va da 60 mila persone a 250 mila. È molto preoccupante. Ma è almeno dal 2010 che l’Europa mette in guardia l’Italia rispetto il rischio PFAS e se si fosse adottato subito il principio di precauzione, ora avremo una serie di valori limite cautelativi prossimi allo zero.

Come cittadina e promotrice di un comitato cittadino, quali saranno i vostri prossimi passi?
Raccoglieremo l’adesione di tutti i cittadini lesi per essere ammessi come parte civile nel procedimento e chiedere ai responsabili risarcimenti per danni ambientali e alla salute. Come azioni immediate, invece, come prima cosa è necessario che gli acquedotti contaminati vengono allacciati con urgenza a fonti di approvvigionamento esenti da inquinamento. E poi stabilire quanto prima limiti di legge certi per questi inquinanti, allineati a quelli più stringenti in vigore nel mondo.

Dato che questo inquinamento non pare frutto di un errore accidentale, con le dovute proporzioni si può parlare di una terra dei fuochi veneta?
Tra le 60 mila e 250 mila persone possono avere nel sangue fino a 250 nanogrammi per grammo di sostanze chimiche PFAS. Credo proprio di sì.

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